di Luca Mercalli – 22 aprile 2020
Cinquant’anni di Giornata della Terra. A ricordo di una delle più grandi manifestazioni popolari di sempre, quando il 22 aprile 1970 venti milioni di Americani – il dieci per cento della popolazione statunitense di allora – si riversò in strada per protesta contro i danni ambientali da perdite di oleodotti, smog, inquinamento fluviale e pesticidi. Fu un’iniziativa vincente, che portò in Nord America alle prime leggi di difesa dell’aria e dell’acqua. Ma poi l’ambientalismo invece di evolvere come garanzia di salute e bene comune è stato via via considerato un ostacolo alla crescita economica, un fastidio per caccia, pesca, agricoltura, allevamento, deforestazione, motocross…
Perfino il sindacato quando ha visto negli anni Ottanta che le norme ambientali potevano minacciare lavoro e salario, ha spesso privilegiato questi ultimi rispetto alla salute dei lavoratori e dell’ambiente. Il resto, in Italia, è storia nota, dall’Eternit di Casale all’Ilva di Taranto alle colate di cemento su coste e pianure, tutta roba venduta come ottima crescita economica che oggi rivela danni irreversibili. Gli ecologisti sono spesso disprezzati come snob lontani dalle esigenze di chi produce (e inquina). È vero, talora hanno fatto sbagli, ma il problema è che oltre agli ecologisti, si dovrebbero ascoltare gli ecologi, insieme a climatologi, zoologi, biologi, oceanografi, glaciologi, idrologi, geomorfologi, il complesso disciplinare delle Scienze del Sistema Terra (ESS, Earth System Sciences). Non sono però figure di riferimento della politica, che sceglie invece gli economisti. Chi avverte del rischio ambientale è un guastafeste, al limite gli si lascia un ruolo decorativo, che non disturbi troppo le attività urbane e industriali.
Gli scienziati dell’ambiente hanno anche scelto la via della militanza e dell’impegno civile, ma in questi cinquant’anni non hanno ottenuto granché. Penso alla capostipite – la biologa americana Rachel Carson – con il libro denuncia contro i pesticidi Primavera silenziosa del 1962, al grande matematico naturalizzato francese Alexander Grothendieck che rifiutò premi e medaglie accademiche e già nel 1970 si ritirò dalla ricerca di punta per protestare contro l’uso militare che se ne faceva e la distruzione ambientale che emergeva da una scienza priva di etica. E più recentemente a Jim Hansen, climatologo che si è fatto arrestare nelle proteste americane contro il carbone.
Nel frattempo le evidenze scientifiche della crisi ambientale sono diventate inequivocabili, le Nazioni Unite hanno costituito organi e commissioni, indetto conferenze internazionali che ancora non portano a provvedimenti concreti di riduzione dell’impatto ambientale globale. E se la maggior parte degli scienziati fino a qualche anno fa ha presentato dati terribili nello stile sterile e asettico per addetti ai lavori, noto ora che – sia per l’avvento di nuove generazioni di ricercatori, sia per la frustrazione di perdere tempo prezioso di fronte alla catastrofe incombente – le pubblicazioni scientifiche si sono fatte più preoccupate, più drammatiche, più urgenti.
Ma è scienza sprecata. Abbiamo sempre più dati che confermano la malattia della Terra, e non li consideriamo, rifiutando di applicare una cura. Ovviamente non riusciamo a cogliere l’aspetto più importante: chi ci rimette è prima di tutto la specie umana, non si tratta di salvare a priori la natura terrestre, ma di garantire il mantenimento delle condizioni ottimali per la nostra vita. Quest’anno il tema della Giornata della Terra è l’azione per il clima. La lotta al riscaldamento globale, la più grande sfida per il futuro dell’Umanità e della biosfera, richiede l’impegno di politica e cittadini. Non si può scendere in piazza a manifestare, ma possiamo riflettere sull’intelligenza ecologica del dopo-virus.