Il mercato “ingozzato” dell’auto

Pier Luigi Quaregna, attivo socio di Pro Natura Torino da anni, ha scritto per “Il Foglio”, mensile torinese, una interessante riflessione che proponiamo anche qui sul nostro sito.

 

Nei ruggenti anni ‘80 una trasmissione di Radio2 prendeva in giro la pubblicità dell’auto: “Se compri il tal modello risparmi il 10%, il tal altro il 30%, se un’auto nuova non la compri affatto risparmi molto di più…”. Questo devono aver pensato i consumatori, i quali si sono improvvisamente accorti che l’auto (come i mobili e gli elettrodomestici) sono beni durevoli. E allora, che durino! Perché cambiarli in continuazione? E per di più a rate, impegnando un reddito futuro e ora anche incerto? È esplosa la bolla pubblicitaria che gonfiava a dismisura il mercato italiano dell’auto, secondo in Europa solo a quello tedesco. Non si è mai ben capito, infatti, perché avessimo bisogno di molte più auto rispetto a francesi e inglesi, a parità di popolazione. E che dire poi della densità di vetture per abitanti, nettamente inferiore a quella italiana, in paesi come Norvegia, Svezia e Danimarca, che pure sono ai primi posti al mondo come qualità della vita? Anticipo l’obiezione: si, ma lì i trasporti pubblici sono un’altra cosa. Vero. Ma vero pure che, da noi, in un’ipotetica scelta tra comprare un’auto e pagare più tasse per creare città a misura d’uomo (con più verde e mezzi pubblici) il 99% non avrebbe esitazioni a preferire la “propria” auto.

Tuttavia un ridimensionamento del 15-20% del mercato era del tutto fisiologico, tanto più che a guardare il traffico nelle città, sempre più convulso e tossico, nessuno (ma proprio nessuno) è rimasto a piedi. Lasciamo fare allora al mercato? La risposta non è facile. Minori vendite significano meno profitto per i produttori, ma anche riduzione dei posti di lavoro e minori redditi per i lavoratori del settore e quelli collegati, minori entrate per lo Stato in un periodo gramo con peggioramento del deficit (oltre i parametri europei), e conseguente aumento del debito, già altissimo.

Fino alla prossima crisi. Inoltre la Fiat è l’unica grande industria rimasta in Italia, dato che ormai il nostro paese è uscito da tutti i grandi settori come il chimico, il farmaceutico, l’elettronico, e, parzialmente, persino da quello telefonico. Qualche esperto saggio (tra i pochi, Luciano Gallino) ha timidamente affermato che il comparto auto andrà ridimensionato in tutto il mondo occidentale e che dovrà necessariamente perdere addetti in misura stabile. A meno che, come segnalava il designer Enzo Mari, in una recente mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, il nostro sistema costruisca ormai beni non perché servano a chi li acquista, ma perché consentono il mantenimento di chi li produce.

In questo quadro complesso è partita la grancassa unanime di produttori e sindacati, non senza qualche episodio di terrorismo come i 60.000 posti a rischio sbandierati da Sergio Marchionne, mirante a ottenere aiuti dallo Stato. Il Governo, dopo qualche esitazione, ha allargato la borsa proponendo incentivi di importo apprezzabile e, contrariamente al piano del presidente Obama, per nulla legati al miglioramento dei modelli e all’eventuale penalizzazione di quelli più energivori (una ventilata modesta tassa sui Suv è durata l’éspace d’un matin).

Mi chiedo che razza di mercato sia questo in cui lo Stato interviene doppiamente, con aiuti alle imprese, dal lato della produzione (è noto che gli insediamenti Fiat al sud sono stati praticamente pagati dai contribuenti) e poi con aiuti ai consumatori per favorire gli acquisti. Lo chiederemo alla Confindustria che, con la sua presidente, non perde occasione per incensare la libertà salvifica del mercato.

Ci poteva essere un ripensamento su tante cattive abitudini, abbiamo invece un semplice rilancio della tecnica di ingozzare il tacchino, cioè di spingere forsennatamente i “soliti” consumi dei “soliti” beni fino alla prossima crisi; stop and go, insomma, in un orizzonte assolutamente miope da parte di tutti i soggetti coinvolti. È possibile pensare, con molta gradualità, con un sistema accorto di incentivi e disincentivi, a spostare la forza lavoro in altri settori, ad esempio in quello del risparmio energetico, per la cui gamma di prodotti siamo fortemente dipendenti dall’estero? Forse si. E comunque è bene che si cominci una strada che sarà lunga e accidentata. Non pare che i sindacati e i partiti abbiano intenzione di sollevare lo sguardo dal presente e peggio ancora fa il Governo. La prova è giunta dalla discussione degli sconti fiscali per chi migliora il rendimento energetico degli edifici: dopo aver tentato di abolire, addirittura retroattivamente, gli sgravi introdotti da Prodi nel 2007, in seguito a vibrate proteste, ha poi fatto parziale marcia indietro riducendo e diluendo comunque i benefici. Risulta chiaro che limitare e ottimizzare i consumi di energia non pare sia la preoccupazione principale dell’attuale esecutivo, mentre anche in questo campo basterebbe ispirarsi a qualche scelta di Obama sullo sviluppo dell’industria verde, che proviene non da una sparuta schiera di austeri pauperisti, ma dal regno del consumismo mondiale.

Con molta gradualità, ripeto ancora, si tratta di incentivare prodotti e servizi che possano rimpiazzare la perdita di posti di lavoro nei settori più tradizionali, avviati al declino, e che possano anche portare a un miglioramento complessivo della qualità della vita. Insomma non “di tutto, di più”, secondo lo sciagurato slogan della Rai, ma forse “un po’ di meno, per qualcosa di meglio”.

Pier Luigi Quaregna

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